Racconti delle strade dei mondi

Il falco

L’inizio della Caduta

 

Jonathan Livingston e il Vangelo

Jonathan Livingston e il Vangelo

L’Ultimo Demone

L'Ultimo Demone

L’Ultimo Potere

L'Ultimo Potere

Strade Nascoste – Racconti

Strade Nascoste - Racconti

Strade Nascoste

Strade Nascoste

Inferno e Paradiso (racconto)

Lontano dalla Terra (racconto)

365 storie d’amore

365 storie d'amore

L’Ultimo Baluardo (racconto)

365 Racconti di Natale

365 racconti di Natale

Il magazzino dei mondi 2

Il magazzino dei mondi 2

365 racconti d’estate

Il magazzino dei mondi 2
Aprile 2024
L M M G V S D
1234567
891011121314
15161718192021
22232425262728
2930  

Archivio

Monologo sul 25 Aprile di Antonio Scurati

No Gravatar

Il monologo di Scurati che segue doveva essere letto da Suurati durante la trasmissione Che sarà, ma che invece è stato fatto dalla conduttrice del programma dopo la scelta della RAI di non far comparire l’autore del messaggio.

25 Aprile, giorno della liberazione dal fascismo e dal nazismo

Milano: gruppi di partigiani festeggiano la vittoria nei giorni della liberazione (Wikipedia)

Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sottocasa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.
Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.
Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).
Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.

Occorre ricordare una cosa, anche se adesso si vuole fare passare altro: il 25 aprile non è una festa inclusiva, non è una festa per tutti. Il 25 aprile non è una festa di liberazione, non è una festa della libertà: il 25 aprile è la festa della liberazione dal fascismo e dal nazismo, è la festa di partigiani e antifascisti. Quindi sì, si può dire che è una festa divisiva, che mostra chi si è opposto alle ingiustizie e alla dittatura e chi invece si è schierato con queste ultime; ergo, è la festa dei primi, non dei secondi. E non potrà essere una festa per tutti finché ci saranno dei fascisti.

The first Slam Dunk re: source

No Gravatar

The first Slam Dunk re: sourceThe first Slam Dunk re: source di Takehiko Inoue è adatto a chi è un fan di Slam Dunk e vuole approfondire il processo di creazione del film; chi cercasse del materiale che aggiunga qualcosa alle vicende lette sul manga o viste nelle serie tv o nel film uscito di recente, potrebbe rimanerne deluso. Buona parte del volume è focalizzato sul mostrare gli storyboar del mangaka (qui in veste di tuttofare, dato che è intervenuto in ogni parte della realizzazione della pellicola) e le modifiche fatte ai disegni prima di arrivare alal fase finale. Occorre fare notare che il lavoro fatto da Inoue è stato qualcosa di enorme: praticamente si è andati a intervenire su ogni frame del film.
Questo però non basta per mostrare quanto impegno, quanta passione abbia messo Inoue in questo progetto. Come rilasciato nell’intervista pubblicata nel volume, Inoue riteneva, alla conclusione del manga Slam Dunk avvenuta nel 1996, di aver ferito i lettori; aveva sì concluso il manga nella maniera che voleva, ma in qualche modo sentiva di averli delusi, dato che in tantissimi si aspettavano il prosequio delle vicende di Hanmichi e compagni, anche per via del fatto che Slam Dunk nella prima pubblicazione terminava con “fine del primo arco narrativo”. E non c’era da meravigliarsi delle richieste dei lettori: il finale di Slam Dunk era un finale aperto, che lasciava molte cose in sospeso, quali il recupero dall’infortunio di Hanamichi, l’affrontare quel personaggio fortissimo mostrato verso la fine del manga (ispirato a Shaquille O’neal), la cui squadra s’intuisce abbia sconvolto il basket liceale giapponese vincendo il campionato nazionale. C’erano tanti elementi che facevano presagire e sperare in un continuo del manga, che però non c’è mai stato; così per molti la storia è sembrata tronca, priva di una reale conclusione, forse perché si era abituati da altre produzioni su sport ad arrivare bene o male a una conclusione (Tommy la stella dei Giants, Rocky Joe, Capitan Tsubasa). Il finale di Slam Dunk invece sembrava frettoloso dopo la vittoria contro il Shannoh, arrivando a conclusione dopo poche tavole; sorte migliore non era toccata certo alla serie anime realizzata praticamente nello stesso periodo del manga, anzi, si era fermata prima di arrivare al campionato nazionale, dispuntando una partita amichevole (che nel fumetto non c’è) tra lo Shohoku e una squadra che annoverava tra le sue fila giocatori dello Shoyo e del Ryonan.
Per questo Inoue ha ritenuto un dovere fare qualcosa per i lettori che tanto calore ed energie gli avevano dato con le loro lettere mentre lavorava settimanalmente a Slam Dunk e già nel 2009 gli era stata fatta la proposta di realizzare un film; come ammesso da lui stesso nell’intervista presente in The first Slam Dunk re: Source, non riteneva la cosa fattibile: riteneva impossibile realizzare le scene di un incontro di basket come dovrebbero essere. E il video pilota avuto gliene diede conferma.
Ma non ci si arrese e nel 2014 ricevette una seconda proposta; la realizzazione del video pilota non lo convinse, tuttavia il volto di Hanamichi che si voltava verso lo spettatore lo colpì e così decise di partecipare alla lavorazione del film. Tuttavia a Inoue pareva scontato mostrare solo la storia già pubblicata, mentre lui voleva proporre qualcosa di più, di unico, di più sfaccettato. Di più profondo.
Quando realizzò Slam Dunk da giovane, era concentrato solo sulla vittoria e sulla sconfitta, ma c’erano tante altre cose da raccontare, come la consapevolezza del dolore e di come superarlo: questo divenne quindi il tema principale di The first Slam Dunk. E il protagonista doveva essere Ryota Miyagi, personaggio di cui non era riuscito ad approfondire la storia durante la serie manga, cosa che lo aveva rammaricato. Un rimpianto che aveva trovato sfogo nella storia autoconclusiva Pierce, pubblicata per la prima volta nel 1998 su Shonen Jump e riproposta anche in The first Slam Dunk re: source. Per chi non consoceva questa storia si è trattato di qualcosa d’inedito, anche se le basi di Ryota già esistevano all’inizio della pubblicazione settimanale, dato che Inoue era interessato al basket giocato a Okinawa, con giocatori bassi che si muovevano moltissimo e velocemente, proprio come faceva Miyagi (un cognome comune in tale prefettura); un basket fortemente influenzato dall’America, dato che ancora oggi a Okinawa si trovano diverse basi militari americane.
Con la sceneggiatura delineata, il lavoro di realizzazione poteva cominciare e per farlo è stato usato il motion capture per rendere i movimenti dei giocatori durante la partita i più relistici possibili, a cui poi è seguito tutto il lavoro di messa a punto che ha portato a quanto visto su schermo. Un lavoro lungo (c’è da considerare che c’è stata anche la pandemia che ha rallentato il tutto, costringendo a lavorare a distanza), apparentemente senza fine, con Inoue che ha dovuto imparare tante cose, perché era in una situazione e in un ambito che non aveva mai affrontati prima. Una fatica immane, mossa dal desiderio di Inoue di rendere felici i lettori che tanto lo avevano seguito. Conclusa la visione del film e letto The first Slam Dunk re: source, si può asserire tranquillamente che c’è riuscito appieno. E si può capire un po’ di più cosa c’è stato dietro The first Slam Dunk, anche il significato del titolo, soprattutto di quel “The first”. In verità, è un po’ una sorpresa, perché Inoue ha scelto un titolo senza un senso netto, perché i significati possono essere tanti; ognuno potrà vederci quelli che vorrà. Ma forse il più significativo è quello del primo passo dopo il dolore.

Ghostbusters: Legacy

No Gravatar

Cosa dire di Ghostbusters: Legacy? Che sicuramente è un’operazione nostalgia, dato che ricalca le orme del primo film, quello con maggior consensi di pubblico e critica. E si può dire che è un’opera riuscita, che non raggiunge il livello della prima pellicola, ma che supera quello del secondo (si avvertiva una certa stanchezza, come se si fosse costretti a soddisfare le richieste del pubblico che volevano un’altra storia dei quattro acchiappafantasmi) e che straccia senza pietà il terzo del 2016 (ci si domanda ancora perché si sia voluta creare una cosa del genere; la risposta in fondo la si sa, ma di certo non c’era la necessità, anzi, andava evitata senza pensarci due volte).
Ghostbusters: Legacy inizia con la dipartita di quello che si capisce essere un acchiappafantasmi, avvenuta durante contro uno scontro con un’entità soprannaturale. Di lui non si sa nulla, anche se chi ha visto i primi due già capisce di chi possa trattarsi dalla chioma di capelli.
Una settimana dopo, la figlia dell’acchiappafantasmi e i due nipoti vanno a vivere nella fattoria fatiscente in cui viveva. Per Trevor e Phoebe la nuova vita nella piccola cittadina di Summerville non si presenta felice; ma la conoscenza di Lucky per il ragazzo e di Podcast per la sorella, rendono tutto più tollerabile.
Phoebe, sempre controllata, razionale, che basa tutto sulla scienza, inizialmente non prende sul serio le parole dell’amico Podcast, appassionato di occultismo, ma quando nella sua casa iniziano a verificarsi strani fenomeni, comincia a indagare e così scopre che suo nonno non era altri che Egon Spengler. Non solo: scopre tutta la sua attrezzatura. E mentre il fratello, dopo averla ritrovata sotto un telo, ripara la Ecto1, lei e Podcast vanno in giro a provare lo zaino fotonico che la ragazza ha riparato.
Tra vecchi e nuovi equipaggiamenti, ci sarà la prima nuova caccia a un fantasma che mangia metallo; la cosa non andrà bene, e i tre finiranno arrestati, con tutti i mezzi acchiappafantasmi confiscati dalla polizia. I tre però non si daranno per vinti e continueranno a seguire gli indizi lasciati dal nonno che scopriranno, guarda caso, non essere né pazzo né rimbecillito; Egon, sacrificando famiglia e amicizie, aveva capito che si stava per ripetere un evento catastrofico come quello che aveva reso famoso lui e gli altri tre acchiappafantasmi, e per questo aveva funto da guardiano contro il male che stava arrivando.
E qui ci si ferma per non fare spoiler, anche se si può dire che non viene immesso nulla di nuovo e che forse non si è voluto rischiare, volendo puntare su un copione già usato perché era stato il vero successo della serie Ghostbuster.
La prima parte di Ghostbusters: Legacy è carina, ma nulla di più. Il film comincia davvero a ingranare quando le cose cominciano a farsi serie e non si è più nella fase della scoperta. Certo, giunti a capire con cosa si ha a che fare, non c’è più nessuna sorpresa; tuttavia, è a questo punto che si comincia a divertirsi. E non si può nascondere una parte di commozione nella “ricomparsa” di Egon Spengler con il volto di Harold Ramis (volto realizzato grazie agli effetti visivi MPC, dato che l’attore che interpretava il personaggio dei primi due film è scomparso nel 2014).
Ogni generazione ha i suoi acchiappafantasmi e Ghostbusters: Legacy si può dire che è un passaggio di consegne tra i vecchi specialisti (che faranno la loro comparsa) e i nuovi. Nostalgia sì, ma in modo divertente. Forse si tratta di una pellicola per gli appassioanti della serie (non ci si deve dimenticare della serie animata The real ghostbusters), ma non è niente male.

Il coraggio di pensare

No Gravatar

Paolo Crepet. Il coraggio di pensarePensare. Una gran cosa. Un elemento che caratterizza e distingue l’essere umano.
Ma è qualcosa che si sta perdendo. Brutto da dire, ma è così: si sta perdendo la capacità di pensare.
Si pensano a cose sciocche, banali, ci si perde dietro il superfluo.
E questa cosa colpisce soprattutto i ragazzi condizionati da tutte le parti: social, media, genitori, scuola.
Sembra che nessuno voglia prendersi più la responsabilità di far ragionare i giovani, d’insegnarli dei valori, di mettere anche dei paletti, perché dare tutto e darla sempre vinta ai ragazzi è tra le scelte che fa più danni (vedere i metodi diseducativi di Benjamin Spock).
Eppure bisogna. Ma non è qualcosa di così complicato.
Il pensare è un’attività che si basa sullo stesso principio del saper risolvere problemi algebrici e dell’avere una muscolatura tonica: si sviluppa e si mantiene con un’attività costante. Non si tratta di un dono divino e neppure di qualcosa riservato a una casta di pochi eletti (laureati, nobili, ricchi), ma di un qualcosa che appartiene a tutti quanti. La differenza di livello che si può raggiungere nel pensare dipende solo dall’abitudine, dalla frequenza e dalla diversità dei modi con cui lo si usa: risolvere problemi pratici, leggere libri dagli argomenti più diversi, ma soprattutto osservare la realtà con occhio obiettivo e distaccato, senza esserne coinvolti (che è forse la parte più difficile da mettere in atto).
Ma se capire come sviluppare la capacità di pensare è importante, lo è ancora di più comprendere perché il pensare è qualcosa che occorre mantenere sempre attivo e ben allenato: se non si hanno buone capacità di ragionare, si finisce per essere manipolati e sfruttati, influenzati da ciò che accade attorno a noi. Eliminare del tutto tali manipolazioni, influenze e sfruttamento è qualcosa di davvero difficile da attuare, ma sicuramente si può limitare il loro raggio d’azione e d’influenza.
Il video di Paolo Crepet, Il coraggio di pensare, è lungo, ma merita di essere visto. Dà molti spunti su cui riflettere.

The first slam dunk

No Gravatar

The first slam dunkCosa dire di The first slam dunk, il film che mostra l’atto conclusivo del manga Slam Dunk di Takehiko Inoue? Che è un buon prodotto, ma che allo stesso tempo è e non è Slam Dunk.
Certo, la pellicola mostra abbastanza bene la partita tra lo Shohoku e il Sannoh, ma ha perso quella freschezza, quella dichiarazione d’amore per il basket che aveva fatto il mangaka attraverso le sue tavole verso tale sport. La bellezza di Slam Dunk era la leggerezza con la quale si narrava il sogno di ragazzi di partecipare al campionato nazionale e vincerlo; in The first slam dunk si ha in Takehiko Inoue ingrigito e incupito dai suoi lavori successivi (Vagabond su tutti). Per quanto si apprezzino certe tematiche mature, in questo caso ci stanno a dir poco con Slam Dunk, andando ad appensatire lo spirito che aveva pervaso il manga sportivo probabilmente più famoso al mondo. Dare a Miyaghi, nel film il protagonista attraverso il quale viene mostrata la partita, un passato simile, sinceramente stona, perché così non era nella storia originale, dove era un ragazzo come tanti con la passione per il basket, unitosi al club di pallacanestro della scuola anche perché innamorato della manager che segue la squadra. Un simile approccio avrebbe potuto andare bene per Real (altra opera sul basket di Inoue), ma non per Slam Dunk.
A questo va aggiunto che pure l’approccio alla partita così immediato, toglie attesa e trepidazione: non viene mostrato in alcun modo come il Sannoh sia la squadra più forte, quella che tutti vorrebbero battere. Il Sannoh è il best of del basket liceale giapponese, così forte da poter battere addirittura squadre unoversitarie. Per fare un buon lavoro Inoue si sarebbe dovuto limitare a quanto scritto nel manga: aveva già tutto pronto per fare un buon lavoro. The first slam dunk sarebbe dovuto partire subito dopo la prima vittoria nel campionato nazionale, mostrando i momenti della notte prima della sfida col Sannoh. L’ansia, la preoccupazione, la tensione di ogni membro dello Shohoku nel dover affrontare un avversario così forte: tutto avrebbe contribuito a creare l’aspettativa per affrontare LA partita. Perché questo è la sfida tra Shohuku e Sannoh: la partira delle partite, la gara più importante da giocare e da vincere.
Invece tutto questo pathos viene tolto. Inoue si è dimenticato che Slam Dunk è una storia che parla di sogni di adolescenti, non è una storia di adulti con dei rimpianti, con voglia di dimostrare qualcosa per qualcosa che si è perso. Non aiuta certo poi il fatto che della partita sono mostrati solo dei frammenti, mentre molto del tempo viene impiegato per mostrare il passato di Miyaghi, soprattutto il legame che ha avuto col fratello maggiore e dei contrasti nati in seguito con la madre per via di un evento che cambierà la loro vita e il modo di rapportarsi. Pure la scelta dei colori delle animazioni, così “smorti” rispetto a quelli della serie animata degli anni 7Nnovanta, non aiuta a entrare in sintonia con il film. E se ci si aggiunge che è stato cambiato il cast di doppiatori che aveva reso così caratteristico e carismatico l’anime, il giudizio non è dei più entusiasmanti.
Se con la recensione ci si fermasse qui, dopo aver visionato i primi venti minti, per The first slam dunk si andrebbe incontro alla bocciatura. Alla prima visione del film, proprio per un senso di delusione per come era stata approciata la parte finale di Slam Dunk, ho deciso di fermarmi e mettere per iscritto questa recensione. Poi ho ripreso la visione, perché non ritenevo possibile che Inoue potesse venire meno alla sua opera migliore, quella che a mio avviso aveva più amato, quella che aveva sentito più sua. E a ragione: i restanti minuti delle due ore della pellicola sono volati, coinvolgenti ed entusiasmanti. Alla fine The first slam dunk è un gran bel film. Un po’ diverso dall’originale (con un Inoue che ha scelto un approccio più maturo, perché le esperienze della vita cambiano tutti e da quando è finito il manga sono ormai passati trent’anni) ma un gran bel film. Dati i tempi di durata, nella pellicola sono state eliminate alcune scene (Haruko e Uozumy hanno veramente poco spazio), ma ciò non influisce sulla storia, rendendola veramente notevole.
Allora perché mantenere nella recensione la prima parte che sa di bocciatura se alla fine della visione The first slam dunk viene promosso a pieni voti? Perché se c’è chi ha amato il manga e all’inizio del film prova delusione per quanto si sta vedendo, si vuole dire che Inoue ha dato alla versione animata della sua storia la conclusione che merita e di non mollare. Perchè un film è fatto per far provare emozioni e non sempre sono quelle che ci si aspetta; soprattutto, alle volte non sono immediate. Spesso ci si ritrova a rinunciare per non aver avuto una prima impressione positiva: alle volte si ha ragione, alla volte no. Con The first slam dunk si sarebbe nel secondo caso e si perderebbe un’occasione.
Naturalmente la visione la consiglio a chi già conosce il manga o ha seguito l’anime, perché altrimenti sarebbe difficile capire certe scene e passaggi, ma se si è stati fan di Slam dunk, la visione è fortemente consigliata.

Per chi volesse saperne di più sulla comparazione tra film e manga, consiglio la visione di questo video di Sommobuta (attenzione: ci sono spoiler sulla storia).

Social network

No Gravatar

Non mi sono mai iscritto a nessun social. Vuoi perché non ne sentissi la necessità, vuoi perché li ritenevo dispersivi, un modo per far perdere tempo, per distogliere l’attenzione da qualcosa che volevo fare mentre ero al computer (scrivere). Non che non perda tempo, d’intoppi, interruzioni o distrazioni ce ne sono sempre, e se alcune m’innervosiscono (una su tutte: il ritenere che se uno sta scrivendo può essere tranquillamente interrotto perché si ritiene che non sta facendo nulla), altre non le reputo negative (interrompermi per leggere il brano di un libro non è una perdita di tempo, ma dà sempre qualcosa, a differenza di perdersi in chat sterili).
Il vero motivo però per cui non mi sono iscritto ai social è perché ho sempre trovato poco chiare le condizioni di chi le gestiva. E quando una cosa è poco chiara, diffido sempre. A ragione, visto che chi gestisce o è proprietario dei social agisce in maniera poco trasparente, sfruttando i dati per un proprio interesse, spesso violando i diritti degli utenti, a loro insaputa: è la legge della posizione dominante. Più si ha soldi e potere, più si ritiene di poter fare tutto quello che si vuole, manipolando in maniera indiscriminata. Il caso Cambridge Analytica ne è esempio. Ma non è certo l’unico: solamente è quello più conosciuto.
Se a questo si aggiunge che i social sono diventati un modo per scaricare gli stati repressi delle persone, una valvola di sfogo per odi, insoddisfazioni personali, rabbie e compagnia brutta, al punto da diventare qualcosa di altamente tossico, ecco il quadro completo del perché sono stato lontano dai social.
Non li evito completamente: in alcuni casi li utilizzo per avere notizie riguardanti comune, eventi oppure uscite di libri. I social non sono il male, questo va sottolineato: sono un mezzo come tanti. Ma sono usati male e questo dipende da chi li frequenta e chi li gestisce. In poche parole, la colpa è sempre dell’essere umano, che non sa gestire al meglio le proprie risorse.
Solo per fare due esempi sulla negatività dei social. Il caso di Bruno Bacelli, non proprio soddisfatto di come è stata gestita la sua campagna pubblicitaria tramite Facebook (poca chierazza del social), e quella di Andrea D’Angelo, uscito dai social per via di una censura contraddittoria e poco funzionale (il video chiarisce molto più delle mie parole).

Dinanzi a queste continue dimostrazioni di un modo di fare che non mi piace, le mie decisioni passate (anche criticate da certi, viste come asocialità, mancanza di modernità o perdita d’occasione per promuovere gli scritti che realizzo) non fanno che trovare conferme. E alla luce di quanto sta accadendo, ritengo improbabile che possano essere rivalutate.

Cultura Woke

No Gravatar

New York, città dove è stata contestata la cultura Woke da parte di un'italiana«Ho 42 anni, arrivai dal Veneto a New York nel 2009 e me ne innamorai subito. Dovevo rimanere per uno stage di pochi mesi, sono ancora qui. Oggi però stento a riconoscerla. In Italia mi considero una progressista, perfino radicale. A New York ora devo scusarmi in continuazione per essere bianca, quindi privilegiata e incapace di capire le minoranze etniche. Sono catalogata dalla parte degli oppressori. Passo il mio tempo a camminare sulle uova, a dribblare le regole della cultura woke, qualsiasi cosa dica o faccia può essere condannata come una micro-offesa rivolta contro afroamericani o latinos»
Queste sono le dichiarazioni di un’italiana che vive a New York. Secondo tale dichiarazione, nella cultura Woke e all’interno dell’università new yorkese, il vero razzismo è quello dei bianchi contro i neri, se si è bianchi bisogna scusarsi per il razzismo di cui si è portatori, bisogna partecipare frequentemente a riunioni di White Accountability (“responsabilità bianca”) per riconoscere le micro-aggressioni verso i neri e chiedere pentimento.
Un discorso che è similare alle affermazioni della sorella di Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa dall’ex fidanzato: “Io ripeterò sempre che la differenza non deve essere sulle spalle delle donne, anzi gli uomini devono fare un mea culpa, anche chi non ha mai torto un capello perché il catcalling o l’ironia da spogliatoio non vanno bene. Fatevi un esame di coscienza e iniziate a richiamare anche i vostri amici perché da voi deve partire questo. Noi donne possiamo imparare a difenderci ma finché gli uomini non si fanno un esame di coscienza e non si rendono conto dei privilegi che hanno in questa società non andremo da nessuna parte.”
Sebbene sia la cultura Woke sia la sorella della vittima affrontino due cose serie come il razzismo e la violenza sulle donne, presentano una mentalità distorta: non perché uno è bianco o uomo è colpevole di ciò che fanno altre persone che sono bianche o uomini verso donne o persone di colore. La responsabilità è individuale: se uno non ha commesso nulla di male, non solo non è colpevole, ma non deve nemmeno sentirsi colpevole per quanto fatto da altri. La responsabilità è individuale, non dipende all’appartenere a un certo gruppo.
Sia la cultura Woke sia i movimenti che vedono gli uomini come gli unici portatori di violenza, sbagliano e stanno portando avanti un messaggio che non solo non aiuta, ma rischia di fare più danni che altro, perché non è così che si risolvono certe problematiche: rispondere con durezza (e anche vendetta se si vuole) per gli errori di una parte di persone non è una scelta saggia, come dimostra la storia con un evento importante come la Seconsa Guerra Mondiale. La Germania, scoffita nella Prima Guerra Mondiale e ritenuta responsabile dello scoppio del conflitto, subì durissime sanzioni, che possono essere definite anche esagerate; tali sanzioni portarono nella popolazione tedesca un forte senso di rivalsa che fu cavalcato poi da Hitlher con l’ideologia nazista, portando in questo modo allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (certo questa non fu l’unica causa dello scoppio di tale conflitto, fu dovuta anche all’influenza che il fascismo di Mussolini ebbe su Hitler e anche a una certa connivenza dei paesi europei che videro il nazismo come un mezzo per contrastare il comunismo russo, ritenuto allora molto più pericoloso). Quindi bisognerebbe stare attenti con un certo modo di agire e non esasperare con mentalità di rivalsa che non porteranno a nulla di buono.
(Piccola nota a margine: si tratterà di una semplice coincidenza, ma fa pensare che praticamente nello stesso periodo esca un articolo di un’italiana che mostra una stortura americana e si critichi un sistema all’interno di un’università e intanto ci siano due italiani che elogiano Putin e la Russia, come fatto da Irene Cecchini e Jorit. Una cosa che fa pensare, dato che non è una novità che la Russia cerchi di farsi pubblicità e di mostrarsi per quella che non è per avere consensi e appoggi).

Maboroshi

No Gravatar

MaboroshiMaboroshi è un film del 2023 di Mari Okada incentrato sulle vicende di Masamune Kikuiri, Mutsumi Sagami e alcuni dei loro compagni di classe. Studente del terzo anno delle superiori, Masamune sta studiando con gli amici per gli esami di ammissione; sembra una giornata come le altre, quando un’esplosione all’acciaieria, attorno alla quale ruota l’esistenza della cittadina di Mifune, seguito da un crollo nella montagna a fianco, sconvolge tutto quanto. L’incidente appare subito grave, ma un’improvvisa luce verde squarcia la città.
Da quel momento in poi Mifune è isolata dal mondo, ma questo non è il fatto più strano: nel cielo compaiono delle crepe dello stesso colore della luce, che vengono tappate dal fumo che sale dalla acciaieria. Non è il solo cambiamento, anche le persone mutano atteggiamento: sono più apatiche, prive di stimoli. Le stagioni sono tutte uguali e gli adolescenti, come Masamune, guidano l’auto.
Un giorno, Masamune, viene invitato da Mutsumi a recarsi all’acciaieria perché vuole mostrargli una cosa di cui la maggior parte delle persone è all’oscuro: una ragazza più o meno della loro età che assomiglia molto a Mutsumi ma che si comporta come una bambina. Mutsumi chiede a Masamune di recarsi alcune volte a settimana all’acciaieria per aiutarla ad accudire la ragazzina, che Masamune chiamaerà Itsumi.
Col passare del tempo, Itsumi s’affeziona sempre più a Masamune, al punto da scatenare una reazione molto forte in Mutsumi; il ragazzo ne rimane sorpreso, e reagisce cercando di liberare Itsumi dalle mani di Mamoru Sagami, lavoratore dell’acciaieria e sacerdote del Santuario Mifushi della città, che non vuole farla uscire dall’impianto e vuole consacrarla, in modo che gli dei un giorno possano perdonarli: fuggiti da dove la ragazza è reclusa, raggiungono un treno abbandonato e mentre sono lì si formano nuovamente delle crepe, permettendo a Masamune di vedere cosa c’è attraverso.
La realtà lo sconvolge: vede la città in uno stato di degrado e rovina. Da lì comincia a capire perché il tempo sembra essersi bloccato, perché non cambiano mai fisicamente. E che non è stata raccontata tutta la verità sull’incidente.
Mamoru Sagami, scoperto, è costretto a raccontare in parte la verità. Così come Tokimune, zio di Masamune e fratello del padre di lui scomparso, rivela che Itsumi non appartiene a quel mondo: viene da fuori Mifune. A differenza di loro che fisicamente non cambiano ma maturano mentalmente, la ragazza cresce fisicamente ma non evolve a livello mentale.
Col passare dei giorni il fumo, che assume la forma di lupo, comincia a far sparire le persone della città che cominciano a creparsi come il cielo. Sempre più spesso si formano crepre nella realtà e in una di esse Masamune vede una persona che assomiglia a suo padre che sta assieme a una donna di nome Mutsumi Kikuiri; in quell’attimo capisce che la persona che ha visto è il se stesso adulto sposato con Mutsumi (Sagami non è il suo vero padre, ma solo quello adottivo) e che Saki, la bambina che hanno, altri non è che Itsumi.
Dopo questo fatto, dichiara i propri sentimenti a Mutsumi, che però è restia ad accettarli, dato che lui si è dichiarato solo dopo aver visto il futuro. I due tuttavia finiscono per baciarsi; Itsumi li vede e comincia a piangere, facendo aprire sempre più crepe nel loro mondo. Nello stesso momento il fumo dell’acciaieria cessa di esistere.
Il mondo in cui vivono sta per finire, ma si cerca ancora di salvarlo. Mentre Tokimune cerca di far ripartire l’altoforno, Masamune e i suoi amici vogliono far ritornare Itsumi al mondo reale, perché il loro mondo altro non è che una stasi, un mondo illusorio creato dagli dei della montagna per far continuare a vivere l’ultimo momento felice della città, data la sua inevitabile fine dopo l’incidente.
Inevitabilmente Masamune e gli altri scompariranno, ma cercheranno di vivere il più possibile quel momento, mentre Itsumi deve tornare a vivere la vita che ha interrotto.
Anni dopo, una Saki cresciuta e matura, torna a visitare la Mifune reale, abbandonata e in degrado, ricordando i momenti felici che vi ha trascorso, ma anche la prima ferita al cuore che ha avuto.
Cosa dire di Maboroshi? Si tratta di una love story con elemento fantastico annesso, ma è anche qualcosa di più: è il cercare di bloccare il tempo, di far rivivere momenti felici prima che il tempo vada oltre e se li porti via. Il non vedere finire mai certi attimi può sembrare un desiderio bellissimo da vedere esaudito, ma il ripetersi sempre delle stesse cose alla fine fa perdere sapore all’esistenza, ai sentimenti, alle emozioni. Per quanto alle volte poco piacevole, bisogna andare avanti.
Maboroshi è un buon film, ma non è proprio immediato; in alcune parti fa fatica a ingranare, rendendo difficoltosa la comprensione, specie quando si tratta di spiegare le meccaniche del mondo illusorio che fa continuare a vivere Mifune. Comunque, la sua visione è consigliata.

Wolf children - Ame e Yuki i bambini lupo

No Gravatar

Wolf children - Ame e Yuki i bambini lupoWolf children – Ame e Yuki i bambini lupo è probabilmente il film più conosciuto di Mamoru Hosoda. Hana è una studentessa universitaria che un giorno incontra in facoltà un ragazzo da cui rimane colpita; il ragazzo, come scopre, non è iscritto all’università, ma la frequenta lo stesso per imparare. Hana prende a frequentare Takao, questo il nome del ragazzo, e in breve i due si mettono insieme; Takao le rivelerà essere un uomo lupo, l’ultimo discendente dell’estinto lupo giapponese, ma il fatto non la spaventa affatto. Benchè giovani, metteranno su famiglia, avendo due figli, una femmina e un maschio, nel giro di un anno. Nonostante le ristrettezze (lui lavora per una ditta di trasporti, lei in una lavanderia), la loro è una vita felice; almeno fino a quando, per portare a casa della carne, Takao muore cercando di prendere un volatile. Hana, nonostante sia sconvolta nel vedere il corpo dell’amato (trasformatosi in lupo) portato via come se fosse spazzatura, si fa forza e cresce da sola i bambini, nonostante abbia sempre paura che la loro natura sia scoperta, visto che i piccoli possono trasformarsi in lupi (per questo quando stanno male non li porta in ospedale). Proprio per tale ragione decide di trasferirsi in campagna, vicino alle montagne.
Yuki e Ame, questi i nomi dei piccoli, possono vivere liberi, senza timore di essere scoperti, ma le difficoltà non mancano: Hana cerca di vivere con i prodotti della terra che coltiva, ma essendo inesperta i suoi risultati sono fallimentari. Presto la giovane donna deve intaccare i pochi risparmi che ha, ma i vicini vanno in suo soccorso, aiutandola a coltivare la terra e finalmente a ottenere frutti dai suoi sforzi.
Gli anni passano e l’esuberante Yuki, una vera e propria forza della natura, sente il bisogno di conoscere altre bambini e vuole andare a scuola. Hana, nonostante i timori iniziali, acconsente ad assecondarla; Yuki, che subito si presenta come un maschiaccio, comincia a cambiare e a voler essere come le compagne, reprimendo sempre più la sua parte lupesca.
Suo fratello Ame invece fa il percorso inverso: sempre pauroso e timido, il bambino comincia a prendere confidenza con se stesso e ad apprezzare sempre più la vita a contatto con la natura. Proprio per questo a scuola si sente a disagio, fuori posto e col tempo comincia ad andarci sempre meno, preferendo accompagnare la madre che lavora come assistente in una riserva naturale; lì incontra un lupo in gabbia nato in cattività ed è ben diverso dal padre. Tuttavia, l’incontro lo spinge a voler vivere come tale. Desiderio che prende forma quando un giorno nella foresta incontra una vecchia volpe che gli fa da maestro, insegnandogli come vivere nella natura e a prendersi cura di essa per divenire un giorno suo custode.
Yuki a scuola comincia ad avere problemi quando arriva un nuovo bambino in classe con lei: Souhei sente su di lei odore di cane e ciò la spaventa. Yuki prende a evitarlo, ma lui non le dà tregua, iniziando a seguirla dappertutto; la bambina un giorno perde il controllo e si trasforma in lupo, ferendo Souhei a un orecchio. Spaventata, smette di andare a scuola. Souhei però non si perde d’animo, portandole sempre i compiti a casa e cominciando a conquistare la sua fiducia.
I due bambini crescono e le differenze tra loro si fanno sempre più forti: Yuki si fa sempre più vicina al mondo umano mentre Ame se ne allontana sempre più e la cosa un giorno li fa litigare violentemente, mettendo a soqquadro tutta la casa.
Durante un tifone, Yuki rivela a Souhei, dopo essere rimasti soli a scuola, la sua natura di lupo; il compagno le dice che già lo sapeva e che preserverà sempre il segreto. Ame invece si allontana definitivamente da casa, andando a prendere il posto del suo vecchio maestro. Hana lo insegue cercando di convincerlo a restare, ma durante la tempesta cade e sviene. Ame torna sui suoi passi e la porta in salvo, guardandola un’ultima volta prima di trasformarsi in un lupo ormai adulto e d’inoltrarsi nella foresta.
Yuki invece l’anno dopo lascerà casa, vivendo nel dormitorio delle scuole medie che frequenta.
Hana, che rimane a vivere nella casa di campagna, ricorda con gioia i dodici anni passati insieme ai suoi figli, serena perché Yuki e Ame hanno trovato la propria strada.
Wolf children – Ame e Yuki i bambini lupo è una storia che parla del rapporto tra genitori e figli, del trovare la propria strada. Una pellicola che nella parte centrale ricorda anche un po’ Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti (solo dai risvolti più positivi, con Hana che stringe rapporti amichevoli con i vicini), ma che soprattutto è debitrice di due delle storie più famose di Jack London: Yuki incarna Zanna Bianca, che da più selvaggia diventa più civilizzata, decidendo di non essere più lupo ma di vivere come donna; Ame invece incarna Il richiamo della foresta, che si allontana un passo alla volta dal mondo umano e s’inoltra sempre più nella foresta, fino a non ritornare più da essa.
In mezzo c’è Hana, che da sola ha dovuto crescere due bimbi (cosa di per sé già difficoltosa) e non due bimbi comuni, ma appartenenti a un mondo di cui praticamente non sa nulla, salvo quel poco che le ha raccontato Takao, che però è troppo poco per essere di supporto. Tuttavia, con grande inventiva, coraggio e sacrificio, è riuscita nel suo compito, non senza patemi e ferite, come quella di lasciare che i suoi figli prendano la propria strada e si separino da lei.
Wolf children – Ame e Yuki i bambini lupo è forse il film di Mamoru Hosoda con meno parti divertenti ma è tra quelli che più meritano di essere visti.